Lo scrittore Marcello D’Orta, autore del romanzo “Io speriamo che me la cavo”, qualche anno fa su “La Gazzetta del Sud” scrisse: “Il dialetto nasce dentro, è lingua dell’intimità, dell’habitat, “coscienza terrosa” di un popolo, sta all’individuo parlante come la radice all’albero; nasce nella zolla, si nutre nell’humus, si fonde nella pianta stessa. È, insomma, l’anima di un popolo”. Come ogni annoil 17 gennaio ricorre la “Giornata nazionale del dialetto e delle lingue locali”, istituita nel 2013 dall’Unione Nazionale delle Pro Loco,obiettivo:salvaguardare e valorizzare queste espressioni appartenenti al nostro patrimonio immateriale.Dall’istituzione di questa giornata è poi nato il premio nazionale “Salva la tua Lingua Locale”, che ogni anno raduna opere dialettali da tutta Italia.È un appuntamento per molti atteso, per tanti un attimo per ricordare e per molti altri un motivo di incontro per pensare a come preservare un passato culturale, storico ed identitario negli anni sbiaditosi molto. Nell’intera penisola è stata l’occasione anche per organizzare innumerevoli attività dedicate alla raccolta di libri in e sui dialetti, alle testimonianze video e audio, fino a convegni, rappresentazioni teatrali, letture pubbliche di poesia e molto altro. Il grande linguista e saggista italiano, Tullio De Mauro in un’occasione parlando del dialetto ebbe a dire : La lingua italiana era una lingua seconda, da insegnare come tale, a partire dalla prima, cioè dal dialetto. Meglio ancora il pensiero dello scrittore e poeta Erri De Luca che a proposito del napoletano disse : L’italiano va bene per scrivere, dove non serve la voce, ma per raccontare un fatto ci vuole la lingua nostra che incolla bene la storia e la fa vedere. Il napoletano è romanzesco, fa spalancare le orecchie e pure gli occhi. Il dialetto è l’immediatezza del linguaggio in tutte le sue forme. I suoni che accompagnano le parole possono aiutare ad eliminare i dislivelli a farsi conoscere, far sentire il battito del cuore dell’altro che si ha di fronte. Il dialetto è il suono magico della nostra esistenza, indica le nostre radici, dimostra la nostra appartenenza ad un certo luogo, ad un certo periodo storico identifica e colloca noi stessi nel tempo e nello spazio. Parlare il proprio dialetto significa essere in possesso di una grande eredità della nostra storia. Possiamo stare lontano dal nostro paese, dalla nostra gente, dai luoghi della nostra adolescenza, ma quando, in qualsiasi posto del mondo la nostra persona si trova e sentiamo quel suono, quelle antiche parole espresse come venivano cucite addosso dai nostri nonni, padri e madri, il richiamo all’incontro si fa calorosamente feroce. È la giornata delle parole scomparse usate come abitudini e che a un tratto, per circostanze varie, vengono riposte per far spazio alla lingua nazionale. L’occasione mi riporta ad un bellissimo libro, tra i tanti, di un bravissimo scrittore lucano, nativo di Senise, nella Valle del Sinni, Pino Rovitto. Nel suo libro “le parole scomparse”, racconta appunto di questo patrimonio scomparso delle nostre origini, un vero atto d’amore che come lui stesso precisa: è un linguaggio che dobbiamo mantenere in vita. Sono pagine in cui l’autore senisese lascia intenderecome le parole del nostro dialetto possono scomparire ma non muoiono mai:E, quando le rinomini, le porti in vita, le fai rinascere.La provocazione sarebbe quella di parlare di più con il cuore, in dialetto, che con la ragione, l’Italiano che pur conosciamo poco a differenza del nostro caro dialetto fuoco ardente della nostra vita. Personalmente parlo sempre in dialetto, utilizzo l’italiano quando proprio diventa necessario. Perché da Lucano non ne posso fare a meno.