Ci sono “libri di poesie”, che raccolgono composizioni ascrivibili in qualche modo al genere lirico, e “libri di poesia”, che non sono una silloge di composizioni poetiche ma poesia essi stessi, cioè non sono composizioni poetiche più o meno slegate tra loro, ma veri e propri inni alla musa poetica, che sembra farsi presente nella forma della parola e manifestarsi nella propria essenza.
È questo il caso di “Poësis Laus” di Filippo Gazzaneo, libro di poesia pubblicato nel 2021 dalla casa editrice Robin Edizioni, che dell’autore raccoglie la parola dal profondo del suo generarsi e ne mantiene la primitiva integrità, il carattere aurorale della genesi poetica, attraverso un’opera di torsione semantica che mira a recuperare la radice del linguaggio, nel profondo dell’attività del poetare, dove l’umano è ancora tutt’uno con la parola. Non è un’opera di scavo, perché questa attività parte dalla superficie per giungere nelle profondità e di per sé si configura già come giudizio, come rifiuto di ciò che significa e ricerca di ciò che è, ma una torsione, un “rientro” in sé, senza attraversare il tempo ma semplicemente abitandolo.
È qui, dove la parola “si fa” spazio e tempo che va ricercata la genesi dell’atto poetico, ed è qui che abita l’uomo-poeta Filippo Gazzaneo. Questo libro ci dice che la poesia va abitata, non va evocata o costruita, e men che meno va narrata. L’Habitus è ciò che costituisce il corpo dell’uomo quando vive il suo habitat, ed è lì che la parola è “ancora” poesia. Nell’aurora della conoscenza, che non è affatto conoscenza concettuale ma “visione”, si realizza l’atto poetico come attività sublime dell’uomo che dà origine all’arte. Come scrive Benedetto Croce nel Breviario di estetica, “col definire l’arte come intuizione si nega che essa abbia carattere di conoscenza concettuale. [….] L’idealità (come anche è stato chiamato questo carattere che distingue l’intuizione dal concetto, l’arte dalla filosofia e dalla storia, dall’affermazione dell’universale e dalla percezione o narrazione dell’accaduto) è l’ulteriore virtù dell’arte: non appena da quell’idealità si volge la riflessione e il giudizio, l’arte si dissipa e muore: muore nell’artista che da artista si fa critico di se stesso; muore nel riguardante o ascoltante, che da rapito contemplatore d’arte si cangia in osservatore cogitabondo della vita”.
Gazzaneo non vuole essere osservatore cogitabondo della vita ma “viaggiatore mutilato” che “cammina scalzo nel proprio sterco di vita”. È così che lui trapassa il tempo per andare fuori, fuori dal tempo stesso, nei ricordi che non sono nostalgia né luogo in cui rifugiarsi, ma tempo dimenticato. In Novembre il conato d’autunno diventa lo spiraglio per attraversare il presente “perché l’aria si ferma/e il tempo si dimentica”, perché “il sole sembra camminare lentamente”. E la meta non esiste, perché tutto ciò che è contingente è un vortice che spinge verso un altrove, come in Colori, dove si affastellano visioni e silenzi “camminati da passi uguali dettati dal tempo/che origlia l’eterno,/e che spia l’altrove”. Anche qui la conoscenza percettiva è indistinta, come vuole l’istinto poetico, “Echi muti come specchi accecati da ombre non umane”.
Nella persona di Gazzaneo c’è la continua dicotomia filosofia/poesia. Non contrapposizione ma dicotomia, appunto, nel suo significato primo di divisione in due parti, di una unità “tagliata” che sanguina versi che narrano la storia culturale e interiore del poeta, e il suo raggiungimento della maturità. Ma qui il poeta è la maturità dell’uomo di filosofia, che dopo aver sperimentato la liberazione dai ceppi e la ridiscesa nella caverna, fa la sua scelta umana e civile che è quella dei rapsodi dello Ione platonico piuttosto che quella del prigioniero della caverna. È Platone che invidia Omero, come spiega nel “Manifesto d’autore”, è Ulisse che sceglie il suo viaggio, e Itaca è la poesia, il suo habitat, come spiegavo all’inizio, la dimensione che l’autore abita.
L’attività poetica in Gazzaneo assume la sacralità del vedere pensando, e l’agone di questa attività è la parola, che è conoscenza aurorale ma anche creazione. La parola è l’arena in cui il poeta si muove come un auriga sul suo cocchio, e gira intorno cercando, schivando, colpendo, sanguinando e infine morendo per poi rinascere in una nuova scoperta. A tal proposito è da leggere Parole, la prima poesia della terza sezione, quella appunto delle Poesie della Poesia e delle Parole, sezione che non a caso si chiude con Poësis Laus, la poesia che dà il titolo alla raccolta, e con una coda di due poesie in dialetto, la lingua madre, la parola dell’aurora, come il canto primigenio delle sirene di Ulisse. Gazzaneo è ermetico nel suo procedere. Lo è nella destrutturazione semantica delle parole per poi risemantizzarle in nuove forme, in nuove alchimie, che creano nuovi codici espressivi, non razionali ma visionari. Accade in Incielarti, breve mottetto d’amore della sezione della poesia del corpo, in cui l’iride assapora il corpo dell’amata e il respiro ne asciuga i desideri, fino all’incielamento della terra e all’indiarsi dell’amata.
Insomma le tre sezioni nelle quali si raccolgono le poesie sono un viaggio totale. L’andare fuori delle poesie del tempo, l’andare dentro delle poesie del corpo, e infine l’andare oltre delle poesie della parola. Ma è un viaggio in-utile, perché è chiaro che la poesia “Non serve a nulla. Tranne che a una cosa: definire e ridefinire urgentemente, continuamente e necessariamente le categorie di vita dell’umano”.