La questione petrolio in Basilicata è ricca di paradossi, dal costo del carburante allo spopolamento
Spopolamento, petrolio e inquinamento ambientale, questioni predominanti e non trascurabili, in un’ottica di vero cambiamento, per la Basilicata. Soltanto due anni fa, nel 2018, una accurata previsione elaborata da uno studio del consiglio nazionale degli architetti pianificatori, paesaggisti e conservatori sulla base degli ultimi dati Istat, faceva emergere un dato preoccupante: nel 2036 in Basilicata la popolazione scenderà al di sotto dei 500mila abitanti. Per meglio essere precisi, 495.642, una media della perdita indicata in 3700 unità all’anno.
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Le pagine di letteratura lucana raccontano che soltanto nel secondo dopoguerra, negli anni tra il 1945 e il 1955 si registrò un temporaneo e improvviso arresto di questo processo in coincidenza con la scoperta della questione lucana, come questione centrale e quasi emblematica dell’intera questione meridionale. La domanda sorge spontanea: le istituzioni del territorio, vogliono veramente riscoprire una nuova questione lucana per risolvere questo problema di desertificazione? Una serie di paradossi, invece, caratterizzano la “questione petrolio” in Basilicata.
In Basilicata troppo poche persone conoscono il tema petrolio. Diciamola tutta: la Basilicata ha, nel proprio sottosuolo, il più ampio giacimento petrolifero d’Europa in terraferma ed i suoi abitanti pagano gli idrocarburi mediamente più degli altri italiani. Oltre l’80 per cento della produzione nazionale di petrolio (84.000 barili al giorno cui si aggiungeranno presto i 50.000 di Tempa Rossa) viene dal territorio lucano. La Comunità lucana viene infatti “compensata”, per l’ingombrante consumo del territorio, con apposite royalties, dovute dalle società petrolifere al sistema pubblico in misura percentuale ai ricavi, somme destinate a Regione e Comuni. La domanda è: come vengono spese? Solo un dato da commentare: nel quindicennio 2001-2015 gli enti locali lucani hanno ricevuto la significativa somma di euro 1.512.878.303. La legge impone che le royalties siano devolute “allo sviluppo delle attività economiche ed all’incremento industriale (del territorio)”; le indagini svolte negli anni passate dalla Corte dei Conti hanno messo in luce un uso non propriamente rivolto ai predetti obiettivi e troppo spesso orientato a far fronte alla spesa corrente, spesso a tampone di pessime abitudini amministrative.
A questo si aggiunga che alcuni Comuni, per il solo fatto di non essere propriamente “estrattivi” ma di occuparsi della filiera produttiva più a valle (il Comune di Pisticci con lo smaltimento dei reflui petroliferi) non beneficiano delle royalties, pur ospitando attività con sensibile ricaduta ambientale. Tante estrazioni petrolifere, poche strade e inadeguate per collegare centri abitati dislocati per lo più su rilievi, in un territorio vasto e sempre più spopolato, una rete ferroviaria obsoleta, nessun aeroporto (la pista Mattei?), nessun porto.
Secondo paradosso: vi è un deficit formativo su più fronti, da quello strettamente tecnico-scientifico a quello ambientale ed economico. Manca la formazione di chimici, geologi ma anche di ingegneri ambientali e gestionali, giuristi ed economisti esperti in materia petrolifera. L’Università, a cui sono destinate circa 10 milioni di euro l’anno rivenienti dalle royalties delle estrazioni petrolifere, non ha tuttavia un’offerta scientifica e didattica adeguate alla sfida petrolifera. In ultimo, ma certo non per importanza, il paradosso ambientale. Siamo tutti convinti che si debba andare verso il superamento del consumo di combustibili fossili ma la fase di transizione è ancora molto lunga. Insomma, per le modalità con cui il giacimento è stato gestito in tanti anni, l’improprio utilizzo delle royalties, la mancata valorizzazione delle risorse umane locali, il petrolio, invece che motore di sviluppo, è diventato un nemico pubblico. Usiamo il cervello…cambiamo rotta…insieme si può fare.