Il nostro Viaggio in Basilicata ci porta nel paese dell’enogastronomia e delle tradizioni
Un cartello all’entrata augura a tutti un: “Benvenuti a Roccanova, città del vino”. Il suo nettare ha la denominazione di “Grottino di Roccanova”, citato anche da Plinio nella “Naturalis Historia” riferendosi alla prelibatezza del vino qui prodotto. Conservato in circa 350 cantine nella zona periferica del paese, alcune delle quali risalirebbero al 1700, a detta da molti operatori, contiene notevoli potenzialità organolettiche. Ci troviamo in un luogo che si distingue per la sua capacità di produrre un vino pregiato, che i suoi 1600 abitanti, a 648 metri di altitudine, degustano da sempre. Roccanova è in Provincia di Potenza e dista dal capoluogo poco più di 100 chilometri. Il centro abitato, con una struttura medievale fa risalire le sue origini all’incirca al 1276 quando era una rilevante roccaforte della Contea di Chiaromonte in periodo normanno.
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All’inizio del XII secolo fu feudo di Rinaldo e successivamente, nel 1269, fu assegnato da Carlo I d’Angiò a Guglielmo della Marra, che aveva sposato Adelicia, figlia ed erede di Rinaldo. Come feudo passò poi ai Carafa e, successivamente, ai Colonna di Stigliano, che risultano avervi esercitato giurisdizione feudale ancora alla fine del Settecento, quando, segnalata come Terra di “aria buona”, contava 1765 abitanti. Nel 1799 fu tra i centri abitati dell’area di più sollecita ed attiva iniziativa politica repubblicana. Nel 1857 Roccanova venne colpito da un tragico terremoto (che colpì duramente anche la Val d’Agri) facendo registrare ben oltre 85 morti e un centro storico distrutto. Diversi scavi archeologici hanno riportato alla luce numerosi reperti risalenti al periodo compreso tra il VII e IV sec. avanti Cristo, a conferma della presenza di coloni greci sul luogo. Reperti, tuttora conservati nel museo nazionale della Siritide di Policoro ed in quello di Taranto.
Appena si arriva a Roccanova, tra i tanti palazzi signorili di buona fattura, da visitare subito palazzo Fortunato e il Palazzo Mendaia, entrambi con vincolo monumentale dal 1995 e le due chiese: la chiesa di San Rocco e la chiesa di San Nicola di Bari. Di particolare interesse l’orologio solare costruito nel 1882 nella piazza principale dall’ingegnere torinese Telfi, venuto a Roccanova nel 1864 con il grado di capitano di un distaccamento di bersaglieri che combattevano il brigantaggio. Le pagine di storia raccontano che ritornò a Roccanova nel 1882 e volle lasciare un suo indelebile ricordo: dipinse la pregevole meridiana, tuttora funzionante che è tra le più belle e più complete della Basilicata. Il quadrante, ben rifinito, è arricchito dai simboli zodiacali, che segnano l’inizio delle stagioni. Un paesaggio di grande respiro, quello di Roccanova immerso tra le valli dei fiumi Agri, Sinni e Sarmento adatto per turisti ed escursionisti. Luogo di storia, di religiosità, di cultura che non trascura momenti di alta gastronomia.
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Come nella maggior parte dei borghi lucani, Roccanova conserva una tradizione gastronomica caratterizzata da alcuni piatti legati alla cucina povera del mondo contadino: la pasta di casa, in particolare “Raskatiell” e Firzuou”. I primi sono dei cavatelli “fatti a mano”, conditi con una speciale salsa denominata “Sauza cacoscia”, fatta con pomodori conservati sott’olio dopo essere stati salati e asciugati al sole, peperoni secchi, ammollati in acqua calda, uno spicchio d’aglio, un po’ di olio di oliva e a piacere anche un peperoncino piccante; i Firzuou, invece sono sempre fatti a mano con l’aiuto di un piccolo ferro, e rappresenta il piatto tipico soprattutto nel periodo di carnevale, quando vengono conditi con sugo di carne di maiale e rafano. Di ottima qualità sono anche i salumi tipici, soprattutto soppressata e salsiccia. La cornice a queste pietanze di qualità è rappresentata da un buon bicchiere di vino, senza dubbio il Grottino, Igt dal 2000 e Doc dal 2009. Oggi Dop. Passeggiando per le stradine di Roccanova, tutte impregnate di un odore di puro mosto che ti fa respirare a pieni polmoni, si è tentati di pensare a quella frase di Cesare Pavese: “Io ce l’avevo nella memoria tutto quanto, ero io stesso il mio paese: bastava che chiudessi gli occhi e mi raccogliessi… per sentire che il mio sangue, le mie ossa, il mio respiro, tutto era fatto di quella sostanza e oltre me e quella terra non esisteva nulla”.