Viviamo un tempo in cui il modello dominante è quello della forza e del successo, dove la competizione è la cifra del quotidiano in cui bisogna sempre apparire in forma, mai soccombere né chiedere aiuto, non mostrare debolezza perché la debolezza non crea empatia né emulazione, al massimo suggerisce compassione e commiserazione. È il tempo dei forti, in cui debolezza è sinonimo di sconfitta e quindi di emarginazione ed esclusione, mentre la forza è la vera virtù dei vincitori, il segreto del successo.
La dialettica del rapporto debolezza-forza è invece capovolta nella teologia paolina, che si esprime in maniera particolare nella seconda lettera ai Corinzi in cui Paolo afferma: “Quando sono debole è allora che sono forte” (2 Cor 12, 10). Nelle due lettere ai cristiani di Corinto l’apostolo elabora una vera e propria teologia della debolezza, quale condizione essenziale affinché si manifesti la potenza di Dio. Ma tale potenza si esprime “nell’uomo” e non “sull’uomo”, nella sua condizione di debolezza che non viene superata ma redenta. Dio salva nella croce non dalla croce. Il Risorto porta con sé le piaghe della passione e a Tommaso chiede di toccarle, di mettere il dito nella piaga della sofferenza, senza conoscere la quale non è possibile entrare nella consapevolezza della luce della resurrezione. Per questo, scrive Paolo nella prima ai Corinzi “Dio ha scelto ciò che nel mondo è stolto per confondere i sapienti, Dio ha scelto ciò che nel mondo è debole per confondere i forti” (1Cor 1,27). Se la debolezza fosse considerata una condizione da superare Paolo non ne avrebbe parlato in questo modo, e invece è proprio la debolezza che confonde chi crede di essere forte e quindi autosufficiente, di bastare a sé stesso e, se ne avanza, di salvare anche gli altri. La croce, invece, è la debolezza di Dio. Per il resto, scrive Paolo, “Ti basta la mia grazia; la forza infatti si compie pienamente nella debolezza” (2 Cor 12,1-10).
Nasce da questa riflessione il vero senso di quella che noi chiamiamo inclusione. Nella mentalità comune l’inclusione è una mano tesa verso chi è considerato più debole affinché si avvicini a quella condizione considerata ideale, quella appunto di chi è più forte. La prospettiva paolina ci dice invece che l’inclusione nasce innanzitutto dall’empatia con la condizione di chi è più debole, dal rispetto per la condizione dell’altro e dal desiderio di comprenderne il valore intrinseco, conoscerne la grandezza che Dio ha voluto scrivere nella sua storia che, come quella di tutti, è unica e irripetibile.
Si scoprirà così che nella sua debolezza c’è una forza più grande, che la sua croce come quella di Cristo è una cattedra che insegna a ciascuno a riconoscere i propri limiti e a considerare che proprio quei limiti sono l’opportunità più vera di una comune crescita. Includere è accettare la debolezza come valore, come opportunità per condividere una crescita umana e cristiana, che parte da una medesima condizione di bisogno. Si capisce così il vero senso della frase paolina “quando sono debole è allora che sono forte”, perché è l’empatia della debolezza che ti fa capire che il motore della forza non sei tu ma un Altro. “Tutto posso in colui che mi dà la forza” dice San Paolo ai cristiani di Filippi, esortandoli ad affidarsi solo e soltanto a Dio e non alle proprie forze. E questa è la cifra esatta della vera condivisione: condividere la debolezza per trovare insieme la forza, perché tutti abbiamo un calvario da scalare. Ognuno lo fa portando la propria croce, e in quella croce Dio opera la salvezza di ciascuno.
Questa verità è ben presente alle persone autistiche, che non considerano sé stessi come poveri disgraziati da salvare, ma come persone portatrici di una dignità diversa, autistica sì ma non inferiore. L’inclusione che cercano non è quella della liberazione dalla condizione autistica, ma quella della partecipazione da autistici alla vita attiva della società. Il loro desiderio non è quello di rimanere seduti su un piccolo trono fatto di compassione e pietismo a guardare il resto del mondo che danza, ma quello di prendere parte al cerchio del mondo, con la propria ricchezza e la propria insostituibile unicità.
Solo così si potrà parlare di inclusione, solo così diventerà realtà il loro desiderio di cantare col mondo: “hai mutato il mio lamento in danza, la mia veste di sacco in abito di gioia” (Sal 30,12).