La fuga degli studenti verso il sud è il nostro fallimento. Gli anziani ci insegnano il coraggio
Se fossi un ottantenne che si trova a vivere nell’Italia del Coronavirus penserei di essere caduto in un terribile incubo, in un sogno senza uscita, in una solitudine epocale calata nel paese che dovrebbe custodire la mia veneranda vecchiaia, come si faceva una volta o come si fa nei luoghi in cui la debolezza dell’età che avanza è un valore.
E invece mai come in questo momento di prova il nostro paese sembra essere caduto in un delirio collettivo per il quale al telegiornale e in giro sui social si sente con sollievo che il virus contro il quale stiamo combattendo colpisce a morte soprattutto gli anziani e le persone che hanno importanti patologie pregresse. Sono le persone più bisognose di protezione per le quali la preoccupazione dovrebbe essere maggiore, e invece sono quelle delle quali in questi giorni di isteria da autoconservazione ci si è dimenticati completamente.
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Lo scarso rispetto delle regole mette in pericolo le vite di quanti, per malattie gravi e croniche, hanno bisogno di quelle cure vitali che la crisi sanitaria rischia di far venire meno.
Ha colpito tutti la corsa dei giovani universitari che, per evitare gli effetti restrittivi del decreto Conte che sarebbe entrato in vigore di lì a poco, si sono precipitati nella stazione di Milano per guadagnare un posto sul treno che li riportasse a casa. L’appello del presidente della Regione Puglia, Michele Emiliano, è stato duro e senza sconti a chi stava lasciando Milano in fretta e furia per scappare dai provvedimenti governativi. “Fermatevi e tornate indietro. Scendete alla prima stazione ferroviaria. Tornate indietro con l’auto, lasciate l’autobus alla prossima fermata. State portando nei polmoni dei vostri fratelli e sorelle, dei vostri nonni, zii, cugini, genitori il virus che ha piegato il sistema sanitario del nord Italia.”
Parole dure e piene di verità che hanno indignato molti ma che non hanno convinto nessuno, tanto che anche nei giorni seguenti in tanti hanno aggirato i vincoli e sono scesi al sud, molti senza neanche sottoporsi a quarantena e senza segnalare la propria presenza alle autorità come prescrive la legge. Una irresponsabilità totale, resa ancora più grave dal fatto che a rendersene responsabili sono proprio i giovani, più informati e consapevoli dei rischi che ammalati e anziani corrono qualora il coronavirus dovesse diffondersi nella popolazione meridionale, anche a causa delle tante falle del sistema sanitario.
Chissà cosa avranno pensato i tanti ultraottantenni di fronte a tanto menefreghismo! Quanta solitudine hanno provato insieme all’impotenza di essere la voce più debole di questa grande bagarre.
Ho provato a mettermi nei loro panni e altro sentimento non ho trovato che la triste rassegnazione di chi si trova solo davanti al destino e al pericolo incombente. Se fossi ottantenne sarei tra coloro che hanno visto in faccia la povertà e la guerra, che hanno lavorato in tempi di fame per fare grande questo paese, e che ora assistono a una narrazione scandalosa dei risvolti più nefasti della peste del 2020. “Stiamo sereni, tanto muoiono solo i più vecchi”. È una buona notizia? No, è solo una grande tristezza.
Se fossi novantenne sarei tra coloro che hanno conosciuto la guerra, hanno visto la prigionia dei campi tedeschi e sono rimasti chiusi nei lager dei nazisti senza cibo né acqua, per combattere un nemico scatenato e per dare un futuro a questi giovani. A questi giovani che non riescono a sopportare di rimanere chiusi in casa, fra gli agi e il caldo dei riscaldamenti, fra smartphone e televisioni, che mettono in pericolo la vita dei loro nonni scappando dalle città in cui c’è un virus molto meno pericoloso della cattiveria degli aguzzini dei campi di concentramento.