La vita di un padre e del proprio figlio autistico è come un gioco di specchi. Due specchi opachi però, sui quali qualcuno ha soffiato una fitta coltre di fuliggine che rende le figure poco definite a e volte deformate, come delle ombre che si muovono in maniera disordinata, cercando di afferrarsi senza riuscirci, agitandosi continuamente nel tentativo di riconoscersi in uno sguardo, un cenno o un semplice contatto. A volte sembra di muoversi nello stesso liquido amniotico, come due gemelli che si nutrono in uno stesso grembo, ma che sono troppo vicini, troppo stretti l’uno all’altro, per potere incrociare i loro sguardi.
Eppure c’è un linguaggio che accomuna questi due mondi all’apparenza così distanti, un linguaggio che passa attraverso codici comunicativi che sfuggono alla comunicazione convenzionale, alle varie forme del linguaggio neurotipico, da quella vocale, a quella del corpo e della sua postura, dello sguardo, e perfino a quella della gestualità, così cara all’italica foggia espressiva. Si tratta del linguaggio del silenzio, l’unico che riesce a far parlare due cuori quando riescono a tacere tutte le altre fonti comunicative. Per una persona autistica la pluriforme esperienza comunicativa, fatta di gesti, sguardi, parole, inflessioni della voce e posture del corpo, è troppo complicata. Troppe cose da mettere insieme contemporaneamente, ma necessarie alla comunicazione neurotipica che si basa sulla sovrapposizione di significanti che la mente deve sintetizzare velocemente, per poi elaborare con la stessa velocità una risposta adeguata, contestuale e, possibilmente, ugualmente complessa.
Per il linguaggio neurotipico la risposta a una sollecitazione deve essere appropriata, cioè uguale e contraria a quella che proviene dall’altro. Devo rispondere con un timbro di voce persuasivo se voglio convincere l’altro della mia opinione, che magari è esattamente opposta alla sua, senza sembrare presuntuoso e scontroso, devo gesticolare basso se non voglio irritare l’altro, evitare di agitare le mie mani davanti al suo viso, non devo alzare l’indice, e devo guardarlo negli occhi se mi rivolgo a lui o rivolgere lo sguardo verso un immaginario orizzonte se voglio che la sua mente vada oltre il significato immediato del mio discorso. Guardare il cielo per convincere o intenerire, chiudere il pugno per arringare o intimidire, e infine allargare le braccia per dimostrare resa o totale incomprensione. Tutto molto difficile per un autistico, tutto troppo complesso e sovrapposto, insostenibile per una mente che ha bisogno di una elaborazione più lunga e faticosa per metter insieme e fare sintesi dei dettagli con i quali il suo meccanismo apprende il mondo esterno.
Tutto cambia, invece, quando a parlare è il silenzio, quando l’assenza di altre sollecitazioni sensoriali concede alla mente il tempo di elaborare quel tocco della mano, quello sguardo sfuggente, quella frase chiara e inequivocabile che, senza fronzoli o sovrabbondanti parole, dice ciò che è necessario, e lascia alla mente il tempo per elaborare il significato e la risposta, anch’essa chiara e snella, come un filo d’acqua che cadendo non fa rumore e disseta con gentilezza.
Si chiama linguaggio del cuore, perché lascia al cuore il tempo di sentire il battito dell’altro, la sua sincerità, la sua lealtà e il suo sentimento profondo. E questo spiega il grande fraintendimento della comunicazione autistica, spesso accusata di essere inespressiva, distante e addirittura anaffettiva. Da qui anche il grande stigma dell’autismo bollato spesso come condizione di incapacità di comunicare l’uomo che è dentro la persona con autismo. Da qui l’uso che si fa del termine autismo come sinonimo di solipsismo, di individualismo congenito e insuperabile, di chiusura nella bolla della propria mente.
Non è così.
L’autismo è solo una mente diversa, che comunica con maggiore difficoltà, che fa fatica ad elaborare i codici della reciprocità, non perché non li conosce ma perché il suo “io autistico” è situato in una parte più profonda della sua mente, più nascosta alla velocità del vortice sensoriale che è aperto alla iperstimolazione esterna dei sensi. L’io autistico è l’io umano uguale a quello di qualunque altra persona. Solo, però, è più nascosto, più profondo perché più vicino al cuore. Ecco perché il linguaggio preferito dagli autistici è il linguaggio del cuore. Quello che un padre e un figlio conoscono meglio di qualunque altro linguaggio.