Considerazioni sovversive: necessario considerare l’intero ciclo vitale di ogni componente
Dall’Università delle Scienze di Norvegia sono già da tempo arrivati negli Usa, i risultati di uno studio che analizza in modo più imparziale l’impatto sull’ambiente di una vettura elettrica. Oggi se ne discute anche in Europa. Non è corretto considerare come quintessenza dell’ecocompatibilità un veicolo solo perché non emette alcun tipo di gas quando è in movimento. Bisogna infatti considerare l’intero ciclo vitale, dalla costruzione allo smaltimento di ogni componente. Ogni tecnologia ha i suoi punti oscuri e l’era dell’auto elettrica non fa eccezione. Il rapporto che si analizza specifica che per la costruzione di una vettura a emissioni zero i siti produttivi emettono maggiori quantità di rifiuti tossici, a partire dalle emissioni di CO2, rispetto a quanto avviene per un modello alimentato a benzina o a gasolio. Ancora, la produzione di motori elettrici e delle batterie necessarie per la loro alimentazione richiede l’impiego di materiali potenzialmente tossici come nichel, alluminio e rame. Ultimo aspetto, ma non meno importante, riguarda l’impiego dell’energia per dare movimento a questi veicoli. Si dice con troppa superficialità che siano a impatto zero sull’ambiente, ma questo è vero solo quando si muovono sulle strade. La realtà è che quando sono collegati alla rete elettrica per la ricarica, consumano e inquinano come qualunque elettrodomestico, visto che attingono da un circuito alimentato in parte da combustibili fossili. Tutto questo oggi non può più essere trascurato. In America il Journal of Industrial Ecology ha a sua volta recentemente analizzato l’intero ciclo di vita di un veicolo elettrico, partendo dall’impatto tutt’altro che «verde» dell’estrazione del litio, indispensabile per realizzare le batterie dell’ultima generazione. {module bannerInArticleGoogle} Di conseguenza, circa la metà delle emissioni di anidride carbonica disperse nell’ambiente pesa su un’auto definita a emissioni zero, già prima della sua commercializzazione. Mentre per un veicolo classico, il bilancio si ferma al 17 per cento. Si può pertanto dire che quando si acquista una quattro ruote elettrica, si parte con un debito equivalente alla quantità di CO2 che disperderanno nell’ambiente le centrali per fornire le ricariche necessarie per percorrere circa 130mila km. I conteggi vanno anche oltre, considerano che, cosa che pochi pubblicizzano, la vita media di un veicolo elettrico non vada oltre le 50mila miglia, vale a dire 80mila km, quindi il bilancio va rivisto. Ma anche considerando che si possa arrivare a 150mila km, il vantaggio per l’ambiente si ridurrebbe al 24 per cento rispetto alle auto che guidiamo ogni giorno. Quindi ben lontano dalle emissioni zero. Le analisi sul reale impatto ha rallentato l’esplosione di un mercato negli Stati Uniti, ma anche da noi, sembra non essere mai veramente decollato e le ragioni sono molteplici. In Italia le cose non stanno andando meglio: le vendite incidono in modo ancora irrilevante sul totale. Sono raddoppiate in un anno che ha visto una forte contrazione, ma si è passati dallo 0,02 allo 0,04 per cento, che su 1,4 milioni di auto vendute significa circa 520 esemplari. L’aiuto allo sviluppo sarebbe dovuto arrivare dagli incentivi ma per i privati lo stanziamento si limita a 4,5 milioni di euro: circa 3.800 pratiche, che presto si esauriranno. Un capitolo a parte è dedicato anche all’utilizzo della batteria, alla sua vita media, al numero di ricariche e allo smaltimento delle celle, che a sua volta apre nuove problematiche, in questo caso, legate al riciclo. In mezzo a tante complessità, emerge anche il punto fermo sull’estrazione delle materie prime. Il mercato delle e-car deve fare i conti anche con la disponibilità delle cosiddette materie prime critiche (critical raw materials o CRW). A cominciare dai metalli utilizzati per la realizzazione delle batterie che alimentano i loro motori. Un’auto elettrica infatti ha la necessità di decine di metalli, più o meno rari, per funzionare. Le sue batterie ovviamente, che richiedono oltre al litio, anche grafite e manganese, cobalto e nickel oltre a rame, ferro e alluminio. Per il motore, vengono usati neodimio, disprosio e praseodimio. La produzione di batterie agli ioni di litio si avvale principalmente “dell’attività estrattiva artigianale nella Repubblica Democratica del Congo” e “in alcune aree del Sud America”. Il rapporto fa quindi riferimento ad altre due ricerche che hanno rivelato “lo sfruttamento di manodopera, anche minorile” nei siti minerari africani e “problemi ambientali” legati all’attività estrattiva in Cile. Lo studio sulle miniere congolesi, fa luce sullo sfruttamento della manodopera minorile per l’estrazione di cobalto, che viene compiuta, come denuncia una video inchiesta del Wall Street Journal, senza rispetto delle più elementari norme di sicurezza. Un’altra inchiesta giornalistica inoltre, pubblicata dal Guardian, rivela che sarebbero 35mila i bambini “dai sei anni in su” impiegati nelle attività estrattive, su una forza lavoro totale del comparto che impiega 255mila persone. Non esiste “una legislazione attuale a livello Ue che regolamenti l’uso del lavoro forzato o minorile nei prodotti venduti in Europa” e “tantomeno esiste una legislazione che regoli il danno ambientale al di fuori dell’Ue”, seppur è stato già chiesto un intervento del legislatore europeo, al fine di assicurare intanto perlomeno la tracciabilità delle materie prime ed il rispetto dei valori etici e ambientali nella filiera, che in teoria, oggi vorrebbe rimpiazzare quella dei motori a combustibili fossili.